La diagnosi pre impianto in Italia

Cosa è la diagnosi genetica preimpianto?

La diagnosi genetica preimpianto (anche detta diagnosi preimpianto) è una procedura utilizzata nell’ambito delle tecniche di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) volta a verificare lo stato di salute degli embrioni.

Si tratta, in particolare, di un’indagine clinica diagnostica effettuata in laboratorio sugli embrioni e eseguita prima del loro trasferimento nell’utero della donna.

Come è regolamentata in Italia la diagnosi genetica preimpianto?

E’ l’art. 14, comma 5, della Legge 40/2004 a regolamentare in Italia tale indagine genetica.

Cosa prevede questo articolo?

L’art. 14 prevede che i soggetti che accedono alle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita siano informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero.

Altresì, è l’art. 13, comma 2, della Legge 40 a regolamentare tale diagnosi consentendo la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano, a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate, volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso e qualora non siano disponibili metodologie alternative.

L’accesso alla diagnosi preimpianto e l’intervento della Corte Costituzionale

Prima dell’intervento della Corte Costituzionale che nel 2015, con la sentenza n. 96, ha modificato i criteri di accesso a tale tecnica, l’accesso a tale indagine genetica era consentito esclusivamente ai soggetti che, per legge, potevano intraprendere un percorso di procreazione assistita: le persone affette da infertilità o sterilità.

Le persone fertili ma affette da una patologia genetica trasmissibile non potevano accedere alla diagnosi preimpianto proprio perché non rispondevano ai criteri soggettivi di accesso alle tecniche di fecondazione assistita indicati dalla legge 40.

Quali sono stati gli effetti di tale divieto?

Non potendo effettuare una indagine preventiva, le coppie affette da una patologia genetica trasmissibile avrebbero potuto intraprendere una gravidanza naturale e, eventualmente, ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, così sottoponendosi ad una procedura molto dolorosa da un punto di vista emotivo e certamente non priva di rischi.

La decisione della Corte Costituzionale

E’ così intervenuta sulla materia la Corte Costituzionale che, nel 2015, con sentenza n. 96, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo divieto nella parte in cui non consentiva alle coppie fertili portatrici di patologie genetiche – rispondenti a determinati criteri di gravità – di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

In particolare, la Corte ha sollevato l’incostituzionalità del divieto rilevando il suo contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione Italiana e, dunque, con il principio di ragionevolezza e la tutela della salute della donna.

In fondo, se ci pensiamo bene, si tratta di due profili che si intersecano.

Infatti, in virtù di tale divieto, le donne avrebbero dovuto ricorrere ad una decisione – quale quella di interrompere la gravidanza – quando la gravidanza era già iniziata.

Diversamente, la possibilità di accedere, in via preventiva, alla diagnosi preimpianto, avrebbe consentito alla coppia di decidere se intraprendere o meno quella stessa gravidanza, evitando alla donna di interromperla successivamente, così assumendo una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute.

E la tutela del nascituro?

I giudici costituzionali hanno rilevato che la compressione del diritto alla salute della donna non trova un contrappeso in termini di bilanciamento con l’esigenza di tutela del nascituro che, comunque sarebbe stato esposto all’aborto.

Così è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 40/2004, nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194, accertate da apposite strutture pubbliche.

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